Il digitale nella zona prossimale: perché la tecnologia deve stare “dentro” l’apprendimento fin dall’infanzia
Il digitale rientra a pieno titolo tra i mediatori di senso e di linguaggio – al pari di carta, tempere, costruzioni, luce e suono – e come tale deve abitare la zona prossimale di sviluppo: una sfida calibrata e condivisa, non soltanto un mero intrattenimento passivo.
Nicola Simoncelli
12/4/20257 min leggere
La zona prossimale di sviluppo, secondo Vygotskij, è lo spazio in cui il bambino può andare oltre ciò che sa fare da solo, a condizione di avere accanto qualcuno – adulto o pari più competente – che lo sostiene. Non è un punto preciso, ma una fascia mobile. Se la proposta è troppo avanti genera frustrazione e rinuncia, se è troppo indietro produce noia e mera ripetizione. Il lavoro educativo sta proprio nel sostare in questa soglia, nel mantenere vivo questo “tra”, dove il bambino si sente ingaggiato, sfidato ma non schiacciato. Partendo da questa idea, il digitale non può essere né un premio dopo il lavoro “vero”, né un gadget occasionale. Deve diventare uno degli elementi sfidanti che abita stabilmente questa zona prossimale.
In questa prospettiva l’ambiente non è uno sfondo neutro, ma un attore a pieno titolo. È insieme predittore e contenitore. È predittore perché, prima ancora che l’adulto parli, lo spazio suggerisce possibilità. Materiali accessibili, angoli di gioco, superfici su cui disegnare, strumenti per misurare, costruire, sperimentare. Il bambino, guardandosi intorno, “intuisce” cosa si può fare. È anche contenitore, perché offre limiti, regole implicite, sicurezza fisica ed emotiva. Permette di esplorare senza perdersi, di rischiare senza sentirsi in pericolo. Se ci chiediamo dove mettere il digitale nella scuola dell’infanzia, la risposta non può essere “in un angolo”. Va incluso come parte di un paesaggio di possibilità e confini, al pari dei molteplici linguaggi presenti nella stanza.
Anche un tavolo interattivo può diventare predittore e contenitore al pari degli altri elementi dell’ambiente. È predittore quando la sua interfaccia, i materiali proposti e il modo in cui si colloca nello spazio rendono chiaro, anche a un bambino di tre, quattro, cinque anni, che lì si possono esplorare forme, storie, suoni, mappe. Diventa contenitore quando esistono regole implicite, per esempio turni, informazioni d’uso, limiti temporali di utilizzo, indicazioni sulla condivisione, che aiutano il bambino a non perdersi nel flusso degli stimoli digitali, ma a muoversi dentro un’esperienza leggibile e sicura. Il problema non è quindi se usare la tecnologia, ma che cosa comunica al bambino il suo inserimento nell’ambiente, prima ancora che l’adulto dia una consegna.
Dentro questa zona prossimale, l’insegnante non è uno spettatore esterno che controlla dall’alto cosa accade, ma ne è parte integrante. È un pezzo dell’ambiente, nel senso più forte del termine. Si muove nello spazio, ascolta, rilancia domande, documenta, riorganizza contesti in base a ciò che vede accadere tra i bambini. Non porta semplicemente “contenuti”, ma esercita una continua regolazione della distanza tra ciò che i bambini sanno fare e ciò che possono arrivare a fare con un adeguato sostegno. Di fronte al digitale, questo ruolo si fa ancora più delicato. Non basta “sorvegliare gli schermi”, né trasformarsi in tecnico informatico. Occorre diventare mediatore di senso.
L’insegnante che abita la zona prossimale digitale osserva se l’esperienza è troppo facile, per esempio quando i bambini si limitano a toccare sempre nello stesso punto senza porsi domande, oppure troppo difficile, quando compaiono clic casuali, disorientamento, irritazione. In base a ciò che vede interviene per riportare l’attività in quella fascia mobile dove la sfida è sostenibile. A volte si siede accanto ai bambini, mostra una possibilità, verbalizza un passaggio, collega ciò che accade sullo schermo a un vissuto corporeo o a un’esperienza analogica appena fatta. Altre volte si fa da parte e lascia che siano i bambini a trovare strategie, parole, soluzioni, restando pronto a rientrare se la distanza diventa eccessiva. In questo senso, la retorica dei “nativi digitali” è fuorviante: saper scorrere uno schermo non significa saper pensare con il digitale, né usarlo come strumento di relazione e di ricerca.
La prossimità rispetto all’età, in quest’ottica, non è una griglia rigida di obiettivi. Significa chiedersi che tipo di sfida digitale è realisticamente alla portata di un gruppo di tre anni e quale invece di un gruppo di cinque o sei, senza trasformare queste soglie in recinti. Per i bambini più piccoli, per esempio, ha senso proporre esperienze brevi, condivise, radicate nel corpo. Un proiettore che trasforma una parete in un cielo da esplorare con luci, ombre e movimenti, oppure un tavolo digitale utilizzato a piccoli gruppi, con un adulto vicino, dove pochi gesti chiari come toccare, trascinare, scegliere, producono effetti riconoscibili e legati a ciò che i bambini stanno vivendo anche fuori dallo schermo. Per i più grandi, diventa possibile lavorare su sequenze, narrazioni, cause ed effetti. Si possono fotografare processi, ordinare le immagini per costruire una storia, registrare la propria voce e riascoltarla, iniziare a sperimentare forme elementari di pensiero computazionale attraverso interfacce grafiche intuitive.
In tutti i casi, una domanda dovrebbe guidare la scelta di un’esperienza digitale con i bambini dell’infanzia: questa proposta permette al bambino di avere un ruolo attivo, comprensibile e alla sua portata, magari con un accompagnamento leggero dell’adulto, oppure lo mette principalmente nella posizione di spettatore? Se prevale la seconda opzione, è probabile che ci troviamo di fronte a un intrattenimento passivo o a un’attività che richiede competenze troppo lontane, e dunque fuori dalla zona prossimale. In questo caso è meglio rivolgersi ad altro. Il digitale, per la sua natura fortemente seduttiva, rischia infatti di catalizzare l’interesse del bambino indipendentemente dalla qualità dell’esperienza proposta. Mentre con altri tipi di attività i bambini tendono a perdere presto interesse se non trovano agganci reali, lo schermo continua ad attirare anche quando il contenuto è povero o poco adeguato. Proprio per questo, quando si selezionano esperienze fuori dalla zona prossimale si corre il rischio che il digitale vada a sostituire attività che il bambino potrebbe svolgere meglio con il corpo, con i materiali, con il linguaggio, oppure che lo proietti in un territorio in cui reagisce in modo superficiale a stimoli che non comprende. È ciò che accade al bambino lasciato da solo con uno smartphone o davanti alla televisione, senza una vera mediazione e senza una selezione dei contenuti. Nel caso del dispositivo consegnato individualmente al bambino, inoltre, pesa anche l’assenza di quelle regole condivise e di quella regia adulta che invece possono strutturarsi più facilmente quando lo strumento digitale è integrato nello spazio comune, come parte dell’ambiente e non come oggetto privato.
In continuità con la tradizione di diverse scuole dell’infanzia, prima tra tutte quella di Reggio Emilia, possiamo dire che sono i bambini a configurare lo spazio, o la sezione nel caso della scuola dell’infanzia. Non si limitano ad abitarla, ma la trasformano con i loro interessi, le loro domande, i loro progetti. Questo vale anche per il digitale, se lo accettiamo davvero come parte del paesaggio educativo. Un tavolo interattivo o una lavagna digitale non hanno un solo uso predefinito. I bambini inventano percorsi, combinano funzioni, riadattano strumenti pensati per un obiettivo a scopi imprevisti. Le conversazioni che nascono intorno allo schermo, il perché di una scelta, il modo in cui si raggiunge un risultato, i conflitti sui turni e sulle decisioni, sono materiali preziosi per l’osservazione e la documentazione. L’organizzazione stessa degli spazi e dei tempi può, e dovrebbe, essere periodicamente ripensata a partire da queste tracce. Ciò che i bambini costruiscono, gli usi sorprendenti che fanno degli oggetti, le resistenze che mostrano, gli entusiasmi inattesi e lo stupore per la scoperta diventano indicatori da cui ripartire.
Naturalmente, non mancano obiezioni e rischi. È davvero necessario introdurre il digitale fin dall’infanzia? Non c’è il pericolo di aumentare la dipendenza dagli schermi, di sottrarre tempo al gioco corporeo e sensoriale, di portare nella scuola una dimensione iper stimolante che molti bambini già vivono a casa? Questi timori non sono infondati, soprattutto quando la tecnologia viene usata come riempitivo o scorciatoia. Si pensi ai video messi “per calmare”, alle app ripetitive presentate come educative, ai dispositivi individuali che isolano invece di generare collaborazione. Se torniamo però all’idea di ambiente come “terzo educatore”, la risposta si chiarisce. Il digitale trova il suo senso più profondo quando contribuisce ad ampliare le possibilità espressive e i linguaggi a disposizione dei bambini, senza sostituire altre possibilità che, in quella stessa situazione, risultano più efficaci. Il bambino deve poter scegliere se il mezzo digitale è, tra gli altri mediatori presenti nello spazio, il più significativo o generativo per ciò che ha deciso di fare; magari dopo essersi confrontato con l’educatore.
Usare un dispositivo digitale per vedere da vicino un fenomeno non direttamente accessibile, come una barriera corallina, dettagli ingranditi o il ciclo di una pianta, registrare e riascoltare la propria voce, riorganizzare immagini e suoni per raccontare una storia in modo non lineare, esplorare variazioni di luce e colore altrimenti difficili da produrre, sono tutte esperienze che possono diventare sfide autentiche. Si appoggiano sulle competenze presenti e le spingono un po’ oltre, senza forzature. Ma la condizione resta sempre la stessa. Serve un ambiente predisposto, un adulto presente, un gruppo che abita lo spazio e lo impiega nella ricerca di significati.
Per chi progetta attività educative, può essere utile lasciarsi guidare da alcune domande pratiche. Qual è la sfida cognitiva, emotiva, relazionale che voglio proporre attraverso questo strumento digitale? Dove sarò io, come insegnante, mentre i bambini lo usano, accanto, di fronte, in ascolto? Che cosa suggerisce il modo in cui lo colloco nello spazio rispetto agli altri materiali? Che posto ha il corpo in questa esperienza: ci si muove, si parla, si guarda insieme, oppure tutti restano fermi a fissare uno schermo? Che tracce resteranno dopo, e come potranno alimentare nuove attività analogiche o nuove conversazioni? Non si tratta di un protocollo rigido, ma di un modo per verificare se il digitale è davvero entrato nella zona prossimale o se rimane periferico, o peggio ancora se genera passività.
In definitiva, la zona prossimale di sviluppo ci ricorda che l’apprendimento nasce dall’incontro tra chi è in cammino e chi accompagna. Il digitale, in questo quadro, non è una scorciatoia per “insegnare di più in meno tempo”, né un semplice obbligo di adeguamento ai linguaggi del presente. È uno dei possibili elementi di sfida, potente, delicato, ambivalente, che possiamo scegliere di inserire in quello spazio di prossimità dove il bambino, sostenuto, può diventare capace di qualcosa che prima non era alla sua portata. Fin dall’infanzia, la domanda non è se introdurre o meno la tecnologia, ma come farla entrare dentro la zona prossimale, abbastanza vicina da essere comprensibile e manipolabile, abbastanza lontana da aprire orizzonti senza generare dipendenza.








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